Voglio raccontarvi una storia:
1945. Non immaginava sarebbe arrivato quel momento. Non ci sperava proprio più, ma per fortuna la sua solida fede, fortificata dopo tante notti atroci anestetizzate da interminabili preghiere, e l’amore per la famiglia non gli hanno mai trafitto il petto con una pallottola di fucile nemico. Al contrario, lo avrebbero mantenuto a galla. Poteva tornarsene a casa, riabbracciare sua moglie e aiutarla a crescere sua figlia. Sempre che sapesse di averne una. Era certo però che la piccola Lucia non avesse la benché minima idea di avere un padre, ne tantomeno poteva immaginarsi le sue sembianze: in fondo aveva solo sette anni. Il valoroso soldato però, tornato nella sua Itaca dopo anni passati ad alimentare la Grande Guerra, si fece piccolo piccolo di fronte alla sua creatura. Fu una delle rare volte in cui la bambina si sentì davvero voluta da qualcuno. Lui aveva un gran cuore, un vero magnanimo, che si conquistò l’amore di sua figlia in pochissimo tempo. La vide crescere, frequentare le elementari, bazzicare per l’oratorio con la sua inseparabile migliore amica, innamorarsi e sposarsi molto giovane. Qualcosa andò storto però. Lucia aveva ereditato dal padre un sacco di buone qualità: era molto dolce, sensibile a livelli ineguagliabili e sempre di buon umore. La sua peculiarità era però quella delicatissima fragilità, capace di spezzarsi sulla scia di uno starnuto. E infatti molto presto si spezzò, ma la causa non fu uno starnuto, bensì un vero e proprio uragano. Alla fresca età di 21 anni la spensierata, e ormai sposata, giovane donna cadde in una grave depressione. Il casus belli era evidente: la situazione da schiava a cui era stata relegata da suo marito perché lui di ceto benestante e lei di umili- o meglio umilianti- origini. Dopo pochi mesi ebbe una figlia, poi due e dopo dieci anni ne arrivò un terzo. L’ormai soldato pensionato provò in ogni modo a ridarle il sorriso. La prima terapia impartitale fu una dose massiccia di sigarette per attenuare l’ansia. Divenne una ciminiera, non usciva più di casa – se non per attraversare la strada e raggiungere il tabacchino – non pranzava mai e per cena si preparava tutte le sere un panino col prosciutto. Nient’altro, mai. E beveva solo aranciata. Era riuscita ad alfabetizzarsi il giusto per poter imprimere su carta la sua depressione, e lo facevo assai sovente. I suoi pensieri mi mettono ancora i brividi. Il povero padre non riuscì mai più a vedere la sua figlioletta ancora felice. Arrivò la progenie dei suoi figli, ma la situazione precipitava anziché attenuarsi, nonostante i vari miti riguardo il rapporto idilliaco tra nonni e nipoti. Nel frattempo il suo corpo andava appassendo e il suo fragile cuore era via via più debole, ma sempre in grado di mantenerla in vita per soffrire. Prima di tagliare il traguardo dei settanta ebbe un incidente. Si carbonizzò il sessanta per cento del corpo. Dopo diciotto mesi di ospedale e ventidue interventi per poter rivestire interamente i suoi tessuti, tornò a casa tra le braccia dei suoi figli e i nipoti, che l’amavano ben poco. Ora la faccio breve: non passò neanche un anno che le diagnosticarono l’alzheimer. La malattia ci mise dieci anni per assorbirle ogni cellula dei suoi organi e muscoli, lasciandola morire pelle e ossa, in preda alle sue convulsioni e allucinazioni che la terrorizzarono senza sosta in modo lancinante. Io l’ho vista spirare, è stato atroce.
Ciao nonna.